01 settembre 2005

Linguaggio da giornalisti

La sempre nitida Luisa Carrada di Il mestiere di scrivere scrive:

“Il linguaggio dei giornalisti televisivi a volte ti fa rabbia, a volte ridere.

Ti fa rabbia quando senti dire homeless o embedded, come se tutti sapessero l’inglese. Quando senti l’aggettivo e la tua mente ha già pronto il sostantivo tanto l'abbinamento è scontato. Quando al posto di un ente si cita una sigla incomprensibile.

Ti diverte quando il giornalista ha poco da dire e allora si dà al “pezzo di colore”, dove il colore sta spesso per aggettivazione debordante, giochini di parole banali, metafore già sentite.

Che il linguaggio sia soprattutto servizio al pubblico e non valvola di sfogo per gli aneliti creativi dei giornalisti lo ricorda un libro semplice, ma intelligente, …”

Come non essere d’accordo. Io non vedo l’ora che ricominci Otto e mezzo solo per ascoltare le bugie e le manipolazioni, ma in italiano buono, di Giuliano Ferrara. La Carrada prosegue consigliando un vademecum per giornalisti scritto da Massimo Loche, vicedirettore di Rainews 24. A essere sinceri, dicendoti che Loche è a sua volta un giornalista della RAI, la Carrada non ti invoglia molto all’acquisto.

6 commenti:

Anonimo ha detto...

Io ho dato un esame di composizione di articoli giornalistici: tutte le cose che fanno arrabbiare o divertire la Carrada erano assolutamente vietate, e se si utilizzava una perifrasi scontata o banale veniva cerchiata di rosso e cancellata con cinque rigoni, come al liceo. Era anche interessante, sai, solo che poi uscivi dall'aula, compravi il giornale e in tutte le pagine c'erano articoli che contenevano espressioni tipo "l'immane catastrofe", "la tragedia umana", "la stupefacente scoperta", e ti prendeva un sacco di amarezza.

Anonimo ha detto...

Bene, ma allora mi chiedo: se in TV e sui giornali troviamo solo gente che dice e scrive "l'immane catastrofe", quelli che hanno fatto il corso come tuo dove sono? Tutti sui blog?

Anonimo ha detto...

Mah, non penso mica. Alla fine quelli che scrivono sui giornali, in genere, hanno fatto la Scuola di Giornalismo con la G maiuscola, che è a numero chiusissimo e dura due anni (frequenza obbligatoria tutte le mattine dal lunedì al sabato con compiti a casa), per cui immagino che anche a loro abbiano spiegato queste cose. Secondo me funziona così: i giornalisti (e quelli che scrivono per la tv) sono capacissimi di utilizzare un linguaggio innovativo senza cadere in espressioni retoriche di un'ovvietà imbarazzante, ma non possono farlo. Qualcuno corregge i pezzi, o impone una linea espositiva dalla quale non ci si può discostare più di tanto.

Anonimo ha detto...

Non so nulla degli ambienti giornalistici, ma se è come dici tu siamo finiti. Intendo dire: è inutile sperare in una generazione nuova di gente in gamba perché tanto, mi dici, direttori e redattori capo impongono di scrivere ad usum del popolo bue... Preferisco sperare che invece sia un problema di "prevalenza del cretino", e che, in uno dei colpi di stato che ogni tanto accadono, scrittura lucida e ragionamento onesto prendano il potere. Così, tanto per non suicidarmi subito.

Anonimo ha detto...

Io, in realtà, non è che ci speri più di tanto. E' successa la stessa cosa con la televisione pubblica, e finora la situazione non è migliorata, mai. La logica del "Dare alla gente quello che la gente chiede" è circolare, nel senso che, dopo un pò, le persone si abituano a guardare (leggere) quello che passa il Convento, e il Convento si convince che le persone sono contente perchè continuano a guardare i loro programmi (a leggere i loro giornali). Se consideri il giro di denaro che ci sta dietro, poi, capisci che è dura per un Grande Distributore di informazioni scegliere di sbilanciarsi verso qualcosa di nuovo, e quindi pericoloso e potenzialmente in perdita.
Secondo me bisogna tenere d'occhio i piccoli. ;-)

Anonimo ha detto...

Ahimé, non trovo argomenti da contrapporti, se non la possibilità che qualcosa di nuovo venga da canali diversi dai Grandi Distributori. I piccoli, appunto (se è questo che intendi), con la speranza che diventino un po' più grandi (senza perdere troppo le qualità che si hanno da piccoli).