13 giugno 2006

Le stanze del buco sono utili?

Le dichiarazioni del ministro per la solidarietà sociale Paolo Ferrero a favore della somministrazione dell'eroina sotto controllo medico hanno scatenato molte reazioni. I politici, forse perché politici, hanno guardato alla dimensione simbolica, preoccupandosi del messaggio che, creando le "stanze del buco", si manderebbe ai cittadini. Permissivista secondo alcuni, libertario secondo altri.

A me i messaggi interessano poco: mi piacerebbe semmai sapere se le stanze del buco sono utili. Perciò, mi sono rallegrata a leggere questo stralcio di un articolo scritto per Grazia da Umberto Veronesi. In particolare, Veronesi commenta i risultati di uno studio dell'Università di Zurigo:

L'esperimento è iniziato nel 1991, quando la Svizzera ha cominciato un programma di somministrazione controllata di eroina. Se dieci anni fa i neoconsumatori erano 850, oggi la cifra è scesa a 150 (l'82% in meno). Secondo gli autori dello studio, questi dati dimostrano che la politica 'liberale' sulla droga della Svizzera non ha provocato la tanto temuta 'banalizzazione' del consumo di eroina, cioè il rischio di usarla di più perché era più facile procurarsela.

Al contrario [...] la dipendenza da eroina è diventata sempre più un problema medico e ha perso la sua immagine di "atto di ribellione". I risultati di questa richiesta non mi meravigliano, già dopo un anno dalla legalizzazione dell'eroina per i tossicodipendenti gravi, all'inizio degli anni Novanta, il governo elvetico aveva ottenuto una riduzione del 20% dei morti per overdose".

[...] Questo dimostra che la legalizzazione delle droghe ha effetti positivi. Intendiamoci, io sono contro tutti gli stupefacenti, ma penso che non sia con il proibizionismo che si risolva il problema. Siamo tutti contrari alle droghe, leggere o pesanti, nessuno dice che fanno bene. Ma abbiamo soltanto due scelte davanti a noi: proibire o educare.

Se invece di "educare", Veronesi avesse detto "aiutare" sarei stata più felice. Ma credo non sia il caso di lamentarsi. Anche sul piano simbolico, l'analisi di Veronesi mi pare brillante: il messaggio delle stanze del buco non è che drogarsi è lecito, ma che il posto giusto per un drogato è l'ospedale. Un posto dove nessuno ha voglia di stare.

Aggiornamento (14 giugno): sul blog di Grazia c'è un testo più lungo (non so se integrale), dove Veronesi cita gli autori dello studio e tocca il problema del taglio degli stupefacenti.

14 commenti:

porphyrios ha detto...

l'analisi sulla "medicalizzazione" però non è di Veronesi ma dello studio pubblicato sul Lancet

Anonimo ha detto...

Sarà vero, e tuttavia Veronesi fa sua l'idea e la propone nell'intervista mettendoci la faccia. Mi basta per dire "di Veronesi", sfruttando tutta la felice ambiguità di "di".

Anonimo ha detto...

A me Veronesi è mortalmente antipatico (rammento ancora la sua crociata contro il fumo), ma in questo caso ha assolutamente ragione. A chiunque sostenga il proibizionismo come strumento per la lotta alle droghe consiglio sempre la lettura di "Drug War Crimes: The Consequences of Prohibition" di Jeffrey A. Miron (libro che tra l'altro costa anche poco: l'ho preso da Barnes & Noble per pochi spicci).

Anonimo ha detto...

mah
imo vanno fatte delle distinzioni

considerando che la probabilità di overdose per un tossicodipendente abituale non è certo superiore a quella di impastarsi in auto dopo una sbronza per un bevitore saltuario (ed è legata nella quasi totalità dei casi al mercato illegale delle sostanze e al taglio che queste subiscono - allorché l'overdose avviene per assunzione di sostanze tagliate con veleni o al contrario troppo pure), la medicalizzazione nelle stanze del buco è certo meglio della proibizione, ma non mi pare gran ché, in senso assoluto. Ad esempio non prevede alcun intervento sul mercato illegale né sulla qualità delle sostanze - che il tossico si deve portare da casa (la legalizzazione e le stanze del buco infatti sono cose diverse).

Meglio sarebbe un mercato libero e certificato con somministrazione protetta (ad esempio in farmacia): migliorerebbe la qualità delle sostanze scongiurando la maggioranza dei rischi di overdose, e permetterebbe a chiunque - purché maggiorenne - di assumere la sostanza che più gli aggrada. Va detto infatti che i rischi medici dell'abuso pluriennale di droghe pesanti - se escludiamo le overdose di cui s'è detto - sono rischi cronici, del tutto simili a quelli dell'alcool, che non si capisce perché medicalizzare diversamente.

Meglio ancora sarebbe se, a fianco di strutture che aiutino che lo desidera a smettere, i medici o chi per essi educassero - in questo caso il termine è adeguato - i cittadini a un rapporto corretto con le sostanze: caratteristiche, uso corretto e controllato, abuso, rischi fisici, ecc ecc. Come si fa con gli alcolici del resto, dove i corsi di sommelier costano vagonate di soldi (mentre è noto che gli effetti del vino sono superiori a quelli di qualsiasi droga leggera).

scusate la solita logorrea

Anonimo ha detto...

a giudicare dal titolo di questo articolo del Sole24, la distinzione è comunque chiara anche a veronesi

eccolo

Anonimo ha detto...

Davide, grazie della segnalazione. Temo peraltro che i proibizionisti siano molto interessati alla loro idea di virtù e poco ai costi che ne possono derivare.
B.Georg, sono d'accordo, è una distinzione importante. Da una parte c'è il trattare la tossicodipendenza come una malattia (al pari dell'alcolismo), dall'altra c'è il trattare gli stupefacenti al pari dei farmaci, dell'alcol o di altri diversivi. Io sono favorevole a entrambe le cose, ma sono questioni indipendenti. Forse, ehm, sei tu che le confondi quando dici "la medicalizzazione non è granché, visto che non incide sul mercato illegale". Poi sinceramente non credo che i medici delle shooting room svizzere non verifichino la qualità dell'eroina da iniettare ai pazienti.
Circa la parola "educare", nella tua frase io avrei scritto "informare". Capisco che, nel tuo esempio, esiste una "cultura del vino" che non è fatta solo di informazione ma di un certo modus vivendi. Però preferisco una divisione del lavoro: lo Stato dà le informazioni, poi il modus vivendi, o bibendi, o drogandi lo elaborano i singoli cittadini o la società.

porphyrios ha detto...

"Mi basta per dire "di Veronesi", sfruttando tutta la felice ambiguità di "di"."

Nel "di" non c'è nessuna ambiguità, tantomeno felice, specialmente quando si attribuiscono a uno scienziato corretto analisi fatte da altri scienziati che il primo ha citato.

Con pedanteria e tanta tigna :P

Porph.

Anonimo ha detto...

Tignosa sì, pedante no. Semmai un po' impreparata sull'ambiguità delle preposizioni.

porphyrios ha detto...

se fossi preparata sarei un motorino, dico io. però intendiamoci, angelita: il "di" nel contesto in cui lo usi nel post non è ambiguo. un'analisi è di chi la fa, mentre un'affermazione è di chi la enuncia. ora vado a studiare la grammatica, comunque, eh.

Anonimo ha detto...

Bene, allora sostituisci "affermazione" ad "analisi" nel mio post: così sembra che attribuisca l'idea che "il messagio delle stanze del buco, ecc." a una brillante pensata di Veronesi. Peggio di prima.
"Analisi di", invece, rinvia molto semplicemente all'analisi che Veronesi propone nel testo lì sopra, senza impegni sull'origine dell'idea.
E poi, appunto, a risolvere l'ambiguità c'è il testo: come faccio ad attribuire qualcosa di scorretto a Veronesi riportando le sue esatte parole?

porphyrios ha detto...

Forse perché c'è un... buco? :)

Anonimo ha detto...

Beh, puoi guardarci dentro (i due link).

porphyrios ha detto...

il buco viene colmato solo dall'informazione aggiuntiva che era il Lancet a fornire quell'interpretazione dei dati. linguisticamente la cosa si rende con un "citata da" tra "analisi" e "Veronesi". ma il post è bello così, non lo cambiare.

Anonimo ha detto...

Ma ieri non lo sapevo che era il Lancet. Lasciavo tutto nel vago apposta. Ammetto che "citata da" sarebbe stato più preciso, comunque.