Sono un lettore di Repubblica da anni. Due o tre volte al mese, le pagine culturali ospitano un articolo di Alberto Arbasino su qualche spettacolo teatrale europeo. Ho tentato di leggere questi articoli più volte, e mai sono riuscito a completarne uno. Parto lanciato ma, dopo una ventina di righe, mi ritrovo a pensare alla terrazza in disordine, al rumore strano del frigo, alla lista della spesa e ad altre faccende cui di solito non penso mentre leggo. Allora tento di riconcentrarmi, riattacco l’articolo e mi ricordo che devo telefonare a Mario. Gli telefono e, quando torno al giornale, ancora distratto dalla telefonata, passo alla pagina successiva senza accorgermi.
Venerdì scorso (11 marzo 2005), Repubblica aveva un articolo di Arbasino sulle operette di Offenbach in scena a Parigi. Questa volta, ho deciso di affrontare il problema: ho studiato, parola per parola, il primo paragrafo per stabilire se c’è qualcosa che non va nella mia testa o c’è qualcosa che non va nello stile di Arbasino. E ho scoperto che c’è qualcosa che non va nello stile di Arbasino: è sconnesso, le frasi non formano un discorso, ma lottano l’una contro l’altra. Credo sia per questo che il modulo linguistico del mio cervello rifiuta di elaborarle.
Questo è il paragrafo.
Niente di nuovo sul Fronte Occidentale? Ecco un cancan tipicamente parigino, suonato su un campo di battaglia pieno di soldati morti della Grande Guerra. Tanti saluti a La Grande Illusion? Macché, caro Jean Renoir. Fantaccini e vivandiere invece dormivano, fra Sedan e Verdun, e si tirano su per far le solite baracconate da Folies Bergère. Mentre gli spettatori beati ripetono «oh-là-là l’amour, toujours l’amour!» come i caratteristi francesi coi baffi nei vecchi film-rivista di Hollywood. E noi facciamo zum-pà-pà al Théâtre du Châtelet.
Spesso ho temuto che faticassi a leggere Arbasino perché non so abbastanza di ciò che dice per seguire bene. Perciò, ho innanzi tutto verificato le citazioni.
“Niente di nuovo sul Fronte Occidentale”. E’ il romanzo di Erich Maria Remarque dove, come ricordavo, un giovane soldato tedesco sperimenta gli orrori della prima guerra mondiale sul fronte francese (quello occidentale, appunto).
“La Grande Illusion”. E’ un film di Jean Renoir del 1937 sulla prima guerra mondiale. Un ufficiale francese, detenuto in un campo di prigionia insieme ai suoi soldati, stringe un’amicizia con un ufficiale tedesco, che dirige il campo. Anche se militano per paesi nemici, i due ufficiali scoprono una comunanza di valori. Il titolo del film si riferisce ai dialoghi fra questi personaggi, che sperano di vedere, dopo la guerra, una pace più salda, retta dai principi civili in cui credono. Il film finisce in modo tragico: l’ufficiale francese, che si sente in dovere di aiutare i suoi soldati, tenta di farli evadere; quello tedesco, per bloccarlo, è costretto a sparare e lo uccide.
Sedan e Verdun: sono i luoghi di sanguinose battaglie fra francesi e tedeschi (la prima nel 1870; la seconda nel 1916).
Folies Bergère: come sanno tutti, è lo storico teatro di rivista francese.
Chiaritomi le idee, le sconnessioni del testo sono solo diventate più evidenti.
a) “Niente di nuovo sul Fronte Occidentale? Ecco un cancan tipicamente parigino, suonato su un campo di battaglia pieno di soldati morti…”. La domanda si riferisce al campo di battaglia. Che la risposta inizi col cancan, che non c’entra nulla col Fronte Occidentale, confonde. Meglio sarebbe stato “Niente di nuovo sul Fronte Occidentale? Ecco un campo di battaglia…”. Meglio ancora, visto che la domanda funge da commento, metterla dopo la descrizione: “Ecco un campo di battaglia pieno di soldati morti della Grande Guerra. Niente di nuovo sul Fronte Occidentale?”.
b) “Un campo di battaglia pieno di soldati morti della Grande Guerra”. Qui c’è un’ambiguità sintattica, perché “della Grande Guerra” può essere un aggiunto sia di “campo di battaglia”, sia di “soldati morti”. Il primo caso è quello più naturale, e allora tanto vale eliminare l’ambiguità avvicinando l’aggiunto al nome: “Un campo di battaglia della Grande Guerra pieno di soldati morti” (che infatti suona meglio anche a orecchio).
c) “Tanti saluti a La Grande Illusion?”. E’ un nuovo commento sui soldati morti, che dovrebbe rafforzare il primo (“Niente di nuovo sul Fronte Occidentale?”), ma invece crea confusione. “Niente di nuovo” allude a una ripetizione prevedibile, “tanti saluti all’illusione” a un’aspettativa delusa; le due idee cozzano; i commenti tendono a elidersi.
d) “Macché, caro Jean Renoir”. La confusione aumenta. A cosa stiamo dando i tanti saluti? Alla speranza della pace oppure alla tesi del film (che questa speranza è un’illusione)? Arbasino intende la prima cosa. Ma quel “Macché, caro Jean Renoir”, che cita il regista, ci indirizza sulla seconda. Infatti, basta togliere “Jean Renoir” e il testo migliora (“Tanti saluti a La Grande Illusion? Macché. Fantaccini e vivandiere invece dormivano …”).
e) “Fantaccini e vivandiere…”. Non era un campo di battaglia di soldati morti? Da dove escono le vivandiere?
f) “… invece dormivano”. E’ un “invece” che arriva tardi: Arbasino ha detto che c’è un cancan, è chiaro che i soldati (e le vivandiere) non erano morti. Inoltre c’è un “macché” poco prima. Meglio eliminare “invece” (“Macché. Fantaccini e vivandiere dormivano …”).
g) “fra Sedan e Verdun”. Indicazione di luogo che dovrebbe colorire la frase ma confonde le acque (Sedan non è un episodio della Grande Guerra).
h) “Mentre gli spettatori beati ripetono «oh-là-là l’amour, toujours l’amour!»”. Dovrebbe essere un coro; purtroppo la frase non ha alcuna musicalità: provate a canticchiare oh-là-là l’amour, toujours l’amour.
i) “caratteristi francesi coi baffi nei vecchi film-rivista di Hollywood”. Frase a casaccio: ho presente lo stereotipo del francese raffinato con baffetti e capelli impomatati, ma non mi ricordo che facessero cori.
l) “noi facciamo zum-pà-pà”. Questo è Arbasino che si unisce al coro, ma andando fuori ritmo, se gli altri fanno oh-là-là l’amour.
m) Théâtre du Châtelet. E’ il teatro dove lo spettacolo era in scena; ho verificato, perché a quel punto non ero più sicuro di nulla.
Non so se ci sia un modo di riscrivere che sia ben connesso e rispettoso delle intenzioni di Arbasino. Credo comunque che in questa versione non si perda nulla di importante:
Théâtre du Châtelet. In scena, un campo di battaglia della Grande Guerra pieno di morti. Niente di nuovo sul Fronte Occidentale? Macché, l’orchestra attacca un cancan tipicamente parigino e scopriamo che fantaccini e vivandiere dormivano: si tirano su e fanno le solite baracconate da Folies Bergère, mentre gli spettatori beati accompagnano il coro (qui il testo vero del coro, nda).
Mi direte: “Ma Filter, così la prosa è meno vivace!” E’ vero, ordine e connessione hanno qualche costo. “Ma Filter, non ti sembra che il testo rimanga un po’ in sospeso?” Sì, ma è il primo paragrafo, così il lettore è spinto a proseguire. “Ma Filter, Offenbach che c’entra con la Grande Guerra?” Giusto. Lo spettacolo è La Grande-Duchesse de Gérolstein, del 1867. Il regista ha riambientato l’opera all’epoca della prima Guerra Mondiale, cosa che Arbasino non crede utile menzionare nella prima metà dell’articolo (quella che sono riuscito a leggere prima di ritrovarmi nelle pagine sportive).
2 commenti:
Anch'io leggo Repubblica da anni. Posso dire che la lettura di un testo del genere deve esere fatta acuor leggero, senza tanta razionalità, lasciando che le immagini scorrano nel cervello, come pure lecontraddizioni eventuali.
Hai ragione, ma che valore aggiunto ti da una serie di immagini affastellate? Vuoi mettere la bellezza di un discorso - anche complesso - che al suo termine ti consegna idee distinte e nuove?
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