Ogni tanto alla radio mi capita di ascoltare un prete, di cui mi sfugge il nome, che tiene una di quelle prediche della sera. Ha due temi favoriti: “Come vi sentireste se foste colpiti da una grave malattia” e “Dio come amico”. Il primo lo svolge narrando di qualche parrocchiano che, dopo anni spensierati, è piombato nel dramma della malattia (a quanto pare ne ha molti). Di solito il parrocchiano ne è uscito cambiato o è morto. Il secondo lo svolge esortando gli ascoltatori a parlare a Dio come a un amico, uno su cui possono contare, il primo cui confidarsi quando sono in crisi (per esempio se sono malati).
Mentre dimentico subito la prospettiva di prendere una grave malattia, questa idea di Dio come amico mi attrae, se non altro perché fra gli esseri umani si fa così fatica a trovarne. Il problema è che, come amico, Dio ha i tratti che in una persona mi suggeriscono che non lo sia:
- quando gli parlo, non sono mai sicuro che mi ascolti;
- se gli chiedo un favore, non è detto che me lo faccia;
- nel momento del bisogno, di solito sta lì a guardare invece di aiutare;
- mi tratta né più né meno come tratta chiunque altro;
- se non gli parlo io, lui non si fa mai sentire;
- si secca se lo chiamo senza un motivo serio (invano);
- ho l’oscura sensazione di non piacergli;
- a volte mi sembra che mi spii;
- mi giudica;
- sono sicuro che si considera migliore di me.
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