02 maggio 2005

Recensioni: “La caduta”, di Oliver Hirschbiegel

Cinema

Eliseo, sala Scorsese, a Milano. Pubblico scarso, nonostante i giornali avessero parlato molto del film. Poche donne, prevalenza di maschi giovani (non coi capelli corti).

Trama

Berlino, aprile del 1945. Adolf Hitler resiste all’assedio dei russi nel suo bunker insieme ai fedelissimi e al personale di servizio. La vicenda si intreccia a quelle di un ufficiale medico, di un bambino soldato e, soprattutto, di Traudl, la giovane segretaria del Fuhrer.

Cosa funziona

Hitler. Intellettuali tedeschi, fra cui Wim Wenders, hanno accusato il film di presentare un Hitler troppo umano. In effetti, nel film vediamo Hitler che si rivolge ai sottoposti per nome, dice loro “per favore”, li ascolta quando parlano, è insensibile alle differenze sociali (mangia al tavolo delle segretarie): il capo che tutti vorremmo avere in ufficio. E anche quando lo vediamo che ordina agli ufficiali di arruolare i bambini nell’esercito, che teorizza il rifiuto della pietà per i deboli o che giustifica l’annientamento degli ebrei, ci ricorda Giuliano Ferrara che dice che la guerra è un fatto inevitabile della storia: anche nel male, ci pare più una mente staccata dalla realtà che un criminale pazzo. Non so dire se questa ricostruzione sia realistica (l’aiuto che Joachim Fest ha dato agli sceneggiatori fa credere lo sia); comunque è interessante. Se Hitler fosse stato un diavolo incarnato, o una creatura dello spazio dai poteri telepatici che controllava le menti dei tedeschi a distanza, non ci sarebbe motivo di tornarci su: il film ci dice che invece Hitler era una persona (come tutti noi), con aberrazioni che possono avere in tanti (solo un po’ più gravi), e che gestiva il Reich con ministri e militari (come qualunque capo di Stato). Il male che Hitler ha fatto non è quello di un mostro, ma il solito, vecchio, caro, comunissimo male che fanno gli esseri umani. Ancora oggi, non dovremmo sentirci tranquilli.

Bruno Ganz (Hitler). Straordinario. Poco somigliante nel volto, si tiene alla larga anche dall’imitazione di gesti e posture e sceglie di presentarci un altro Hitler: quello invecchiato, malato, che non abbiamo mai visto, e gli dà profondità, realismo, carisma.

Il resto del cast. Tutti attori eccellenti, con menzione speciale per Juliane Köhler, una Eva Braun che alterna modi da oca a riflessioni lucide sul suo destino senza che ciò ci paia incoerente. Un dubbio su Ulrich Matthes, il cui Goebbels risulta un orrendo manichino, ma non è escluso che l’uomo fosse proprio così.

La regia. Anonima ma efficace. Alterna i punti di vista dei personaggi senza perdere il filo del discorso; tiene il ritmo; non è mai didascalica. Hirschbiegel si è fatto le ossa dirigendo il Commissario Rex.

Cosa non funziona

Ben poco. A volere essere pignoli, le vicende del medico e del bambino soldato sulla scena dei combattimenti, che dovrebbero fare da contrasto alle teorie irreali sulla guerra di Hitler, sono un po’ fiacche.

Durata

Due ore e mezza, che passano senza che ti venga mai di guardare l’orologio.

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