17 maggio 2005

"Luci nella notte", di Cédric Kahn

Cinema

Eliseo, sala Kubrick, a Milano. Pochissimo pubblico. L’Eliseo ha una programmazione eccellente di film europei e cinematografia alternativa. Però dovremmo smettere di scegliere i film col criterio “C’è qualcosa all’Eliseo che non abbiamo ancora visto?”.

Trama

Il film è tratto dal romanzo Feux rouges di Georges Simenon. Antoine è un tipico borghese simenoniano, ossia inetto alla borghesia: un impiegato nelle assicurazioni che avrebbe voluto, come dice, vivere “fuori dai binari”. Hélène, sua moglie, è un avvocato di successo con l’aria della donna che, per dirsi realizzata, avrebbe bisogno solo di cambiare marito. I due partono in auto per raggiungere i figli in colonia. Di notte, attraversano la Francia scambiandosi battute astiose. Lungo il tragitto Antoine si ferma due o tre volte per bere, lasciando Hélène ad aspettarlo in auto, finché dopo l’ultima bevuta non la trova più. Un criminale appena evaso diventerà il suo nuovo compagno di viaggio.

Cosa funziona

Jean-Pierre Darroussin (Antoine). Padrone della situazione. Guida il personaggio attraverso tante emozioni (le fantasie romantiche sul viaggio con la moglie, l’astio di fronte alla freddezza di lei, la loquacità dell’ubriaco man mano che beve, l’esaltazione quando si trova in un’avventura, l’ansia quando non trova più Hélène, il senso di pacificazione alla fine) senza fargli perdere la coerenza. Attori così sono la salvezza degli sceneggiatori cattivi che mettono troppo in un personaggio.

Cosa non funziona

Marito e moglie: anche nelle coppie più in crisi si riesce a intravedere il motivo per cui, un tempo, i due possano essersi amati. Qui abbiamo Hélène che è una donna bella, altera, di classe; Antoine che è un bonaccione spelacchiato. Ho passato tutta la durata del film a chiedermi come mai fossero sposati.

La storia: troppa carne al fuoco. Tenta di fondere un road movie, un film d’amore, un poliziesco d’azione e un mystery del tipo “cosa è successo davvero?”. Tutto ciò era già nel romanzo di Simenon che, non a caso, appare sempre più a suo agio coi personaggi e con gli ambienti che con l’intreccio. Tutto funziona abbastanza bene fino alla sparizione di Hélène; poi la parte con l’evaso è come fosse un secondo film; nella parte finale, che si svolge di giorno, ti sembra che ne cominci un terzo.

La regia: piatta. Ripetitiva nelle scene di auto, che ti fanno venire a noia strade e autostrade francesi.

Carole Bouquet (Hélène), senza sfumature. Nella prima parte è distante e antipatica. Nel finale, quando diventa dolce, ti sembra fasulla, non perché reciti male, ma perché non riesci a rintracciare un legame emotivo col personaggio di partenza. Lo sceneggiatore tenta di farla passare per quarantenne ma, purtroppo, ormai dimostra anche più degli anni che ha (non che non le si darebbe ancora una botta).

La sceneggiatura: dialoghi convenzionali, situazioni convenzionali, momenti clou prevedibili. Il personaggio del detenuto, in scena per tutta la seconda parte, è poco sviluppato. L’unica idea buona è fargli dire ad Antoine gli stessi rimproveri sulla guida che gli faceva la moglie.

Il lieto fine: ci consegna un uomo che si è abbandonato all’autodistruzione senza pagare costi, il che ti fa subito pensare che non è così che funziona la vita.

Durata

Un’ora e tre quarti. Ci sono abbastanza eventi per restare svegli. Il che è diverso dall’appassionarsi.

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