11 aprile 2005

Recensioni: “L’amore fatale”, di Roger Michell

Cinema

President, a Milano. Scegliamo il film su pressione di Nicola, che dice che deve documentarsi sull’amore (alla sua età, pensavo fosse già documentato). Folla all’ingresso, dobbiamo ammucchiarci davanti a una transenna con nastro attendendo che la proiezione precedente finisca. Quando gli spettatori escono, notiamo un’età media altissima. La maschera non vuole farci entrare finché non esce l’ultimo spettatore, che è un vecchio con bastone e accompagnatore. Scena fantozziana del vecchio che percorre gli ultimi metri a passetti, mentre tutti guardiamo altrove fingendo di niente. Quando la maschera abbassa il nastro, partiamo come una corsa di cani. All’uscita della proiezione, a nostra volta sfileremo davanti al pubblico del turno dopo, fra cui Giorgio Armani in carne, ossa e maglietta aderente.

Trama

Il film è tratto dal romanzo di Ian McEwan. Joe è un professore universitario. Durante un picnic, tenta di salvare un bambino a bordo di una mongolfiera fuori controllo insieme ad altri soccorritori. Un uomo muore. Joe si sente responsabile. Poi Jed, uno dei soccorritori, comincia a perseguitarlo con profferte amorose. Daniel ne è sconvolto e il rapporto con Claire, la sua donna, va in pezzi.

Cosa funziona

La storia. Solida. Ci sono i temi classici di McEwan: gli eventi bizzarri che travolgono l’esistenza, l’adulto che smarrisce le funzionalità sociali elementari, l’impotenza della razionalità nel mettere ordine nel nostro animo, lo stile di vita delle élite a Londra, la fragilità della coppia quando esce dal tran tran quotidiano, la riconciliazione attraverso un’accettazione dei nostri limiti. Chi conosce McEwan dirà: “Ma questo è Bambini nel tempo!”. Sì, McEwan è bravo ma tende a ripetersi.

Daniel Craig (Joe), nel ruolo dell’uomo che si crede sano e si scopre nevrotico, cosa che richiede un’abbondanza di sfumature. Craig le trova, anche se a tratti cade in pose nevrotiche convenzionali, dove sembra un Woody Allen coi muscoli.

Rhys Ifans (Jed), nel ruolo dello psicotico ossessivo con componente religiosa, cosa che spingerebbe qualunque attore ad andare sopra le righe (immaginatevi Jack Nicholson). Invece lascia lo spettatore in dubbio su quanto sia davvero malato, il che è necessario per gustarsi il finale.

Samantha Norton (Claire), nel ruolo della donna che vede che il suo uomo è in crisi e allora gli consiglia uno specialista. Brava nelle poche occasioni dove ha spazio.

Cosa non funziona

La regia. Invadente. E’ il tipo di stile che per farti capire che il protagonista ha un sonno agitato rotea la cinepresa sopra il letto. Scolastici i rallenty e la scena dove Joe sale le scale ansioso e rabbioso, con la ripresa a scatti che vorrebbe rendere l’offuscamento della sua mente (forse una citazione della sparatoria sulle scale in Taxi Driver). In compenso, riuscita la scena della mongolfiera (ma, di nuovo, scolastica la soggettiva del vento).

La sceneggiatura. Abborracciata. I personaggi sono poco sviluppati, soprattutto Claire. E anche Joe, non si capisce bene perché si sconvolga tanto a causa di Jed (invece di chiamare la polizia). Imbarazzanti le riflessioni filosofiche di Joe sull’amore (formulette tipo “l’amore è un inganno della natura per farci scopare”).

I dialoghi. Scarni. Quando Claire abbandona Joe arriva, dice “E’ finita” e va. Molte scene coi personaggi zitti che riflettono. Un regista bravo può raccontare anche così, ma Michell non è Bergman.

Durata

Un’ora e quaranta mal distribuita: il primo tempo con lungaggini, il secondo un po’ tirato via.

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