Cinema
Eliseo, sala Olmi, a Milano. Una domenica piovigginosa, che invoglierebbe a stare in casa a smaltire il pranzo pasquale. Invece io esco, prendo il metrò e arrivo in piazzale Missori: un deserto. Prendo via Zebedia: un deserto. Giro in Sant’Alessandro: una vecchietta. Entro in via Torino: frotte di scozzesi, a passeggio con kilt e piume di fagiano sul cappello. “Ancora qui?”, mi dico. La partita era sabato, loro sono in città da mercoledì… ma non paiono intenzionati a lasciarci. Qualche papà italiano li indica ai bambini (“Guarda, gli scozzesi!”) e intanto sbircia le gambe solide delle poche ragazze, che indossano kilt minigonna. Più tardi vedrò gli scozzesi, seduti ai tavolini di Piazza Duomo, osservare tristi le birrette chiare che servono i nostri bar. Forse domani partiranno.
Trama
1994, in Rwanda scoppia la guerra civile fra hutu e tutsi. Paul, il direttore dell’Hotel des Mille Collines, colto di sorpresa dagli eventi, mette al riparo la famiglia, gli amici e centinaia di profughi tutsi nell’hotel. Nel caos, usa il coraggio e l’astuzia per proteggerli dalle milizie popolari, nonostante la corruzione dell’esercito, l’impotenza dell’ONU e l’indifferenza di Stati Uniti ed Europa, preoccupati solo di evacuare gli occidentali.
Cosa funziona
La storia. La lotta fra hutu e tutsi, che produsse quasi un milione di morti (su una popolazione di otto), fu classificato come un caso di violenza etnica difficile da capire per noi occidentali. In realtà il film ci mostra la solita, capibilissima, vicenda di gente potente che stimola l’odio per camparci sopra, sfruttando il denaro e i mezzi di comunicazione. E’ interessante scoprire che la differenza etnica fra huti e tutsi è artificiale: fu creata dai belgi nel periodo coloniale, quando vollero formare un’élite locale da affiancare ai loro funzionari, selezionandola fra i clan più ricchi e gli individui più belli secondo gli standard europei.
La corruzione. Nel film capita più volte che Paul corrompa militari feroci perché risparmino i familiari o gli amici: Paul gli porge i soldi, il militare li prende, e tu ti aspetti che a quel punto faccia una crassa risata e stermini tutti lo stesso. Invece no: ogni volta i militari rispettano il patto. Ciò mi è sembrato poco credibile finché Nicola mi ha fatto notare che in paesi dove mancano mercati legali la corruzione è il modo normale di condurre gli affari. Perciò è essenziale che i corrotti mantengano la parola, così che chiunque si fidi a corromperli di nuovo.
Umqombothi. Vecchia e gradevolissima canzone di Yvonne Chaka Chaka che si ascolta all’inizio del film.
Cosa non funziona
La sceneggiatura. Hollywoodiana. Una sequela di cliché, cattivi caricaturali, sentimentalismo, retorica antioccidentale, frasi inverosimili (“il macete non è un bel modo di essere uccisi”, detta da Paul piangendo). Tenta di mescolare la vicenda storica con il dramma personale dei protagonisti ma le due cose non si fondono, e rimaniamo con un’alternanza imbarazzante di massacri e quadretti familiari. Non mi va di criticare troppo un film ben intenzionato e informativo, ma è giusto segnalarne la carenza di qualità cinematografiche, per chi magari preferisce informarsi sul Rwanda leggendo qualcosa (per esempio, il rapporto del Norwegian Helsinki Committee, un’organizzazione per la difesa dei diritti umani).
Gli attori neri. Don Cheadle, il protagonista, ha la faccia giusta ma si limita a sbrigare i compiti. Fra gli altri non si vedono nuovi Denzel Washington o Halle Berry.
Gli attori bianchi. Nick Nolte, fumatissimo, interpreta un generale dell’ONU debole e confuso. L’impressione è che ormai apparirebbe debole e confuso anche dovendo interpretare Giulio Cesare. Viene voglia di chiedergli la trama del film in cui sta recitando. Parti insignificanti per Jean Reno (il direttore di Sabena Hotels, che fa l’uomo d’azione via telefono) e Joaquin “Commodo” Phoenix (il cineoperatore, di nuovo in un ruolo di velleitario senza spina dorsale).
La regia. Incolore (ops).
Due ore. Comunque la vicenda coinvolge e il tempo passa abbastanza alla svelta.
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