31 marzo 2005

I filosofi credono alle loro teorie?

Spesso si accusano i filosofi di occuparsi di problemi inutili. E’ un’accusa infondatissima. Prendete Leibniz: se fosse vero che ogni mia azione futura è scritta nel concetto individuale di me stesso, o nella monade corrispondente, ciò avrebbe conseguenze concrete. Per esempio, dovrei smetterla di cercarmi un lavoro serio dato che, letteralmente, sarà il lavoro serio a trovarmi, o a non trovarmi, a seconda di come è fatta la mia monade.

Il problema vero è un altro: quello che nessuno crede alle teorie filosofiche fino in fondo. Potete approvarle con la ragione, ammirarne la profondità, schiocchiare le dita dicendo “ecco, ora tutto è chiaro” e, tornati alla vita reale, comportarvi né più né meno come avreste fatto dopo aver letto la Gazzetta dello Sport. Per qualche motivo, una parte del nostro cervello pare impermeabile a queste teorie. Molti filosofi hanno notato il fenomeno.

Cartesio, nella prima Meditazione, parla così del suo metodo a base di dubbi:

Non basta avere fatto queste osservazioni; è anche necessario che mi prenda cura di tenerle nella mente. Perché quelle credenze abitudinarie e consolidate [di cui ho deciso di dubitare] torneranno frequentemente nei miei pensieri, dato che la lunga e continua familiarità darà loro titolo per occupare la mia mente contro la mia volontà, fin quasi a farsi padrone del mio credere.

Poco oltre, Cartesio si lamenta che “una certa pigrizia mi spinge inconsapevolmente sui percorsi normali della vita ordinaria”.

Questo è Pascal, nei Pensieri:

Le prove metafisiche dell’esistenza di Dio sono così distanti dal ragionamento umano e così contorte che fanno poca impressione e, se pure avessero aiutato qualcuno, ciò può essere accaduto solo nel momento in cui osservava la dimostrazione, perché un’ora più tardi avrà temuto di avere fatto un errore.

Questo è Hume, nel Trattato sulla natura umana:

C’è una grande differenza tra le opinioni che ci formiamo dopo una riflessione calma e profonda e quelle che abbracciamo per una sorta di istinto o impulso naturale. […] Se queste opinioni entrano in conflitto, non è difficile prevedere quali vinceranno. Fin quando la nostra attenzione si ferma sulla questione può darsi che il principio filosofico e lo studio prevalgano; ma nel momento in cui i pensieri si rilassano la nostra natura si manifesterà.

Nell’ultimo capitolo del Trattato, sembra addirittura che la cosa non gli dispiaccia. Dopo avere paragonato le sue speculazioni a nubi, dice:

Per fortuna accade che, poiché la ragione è incapace di fugare queste nubi, la natura stessa provvede allo scopo e mi cura dalla malinconia e dal delirio filosofico, o facendo rilassare questa tensione della mente o con un richiamo e una viva impressione dei sensi che cancellano tutte queste chimere. Pranzo, gioco una partita di backgammon, festeggio con gli amici; e dopo due o tre ore di divertimento, quando torno alle mie speculazioni, le trovo così fredde, stiracchiate, ridicole, che non ho cuore di approfondirmi in esse di nuovo.

Conclusione? Non so. Sappiamo che Hume, alla fine, alle sue speculazioni ci tornava. E che Cartesio continuò a dubitare, e Pascal a ingegnarsi sulle prove a favore di Dio. Così come, ancora oggi, tanti lettori vogliono affaticarsi sui libri di filosofia e gli studenti iscriversi a lauree senza prospettive di impiego. Perciò, nella nostra natura, una passione per le domande della filosofia ci deve essere; forse un dio cattivo ha voluto che non potessimo appassionarci alle risposte.

Le citazioni vengono da Peter Suber, When We Leave Our Desks.

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